La funzione monetaria delle banche, mercati finanziari e crisi economiche

Le autorità monetarie (banche centrali) possono creare moneta in modo diretto, mediante la stampa di banconote od il conio di monete metalliche, oppure attraverso la creazione di moneta digitale, come sopra accennato. Nel contesto attuale, però, come ben saputo, la stragrande quantità di moneta in circolazione è creata dalle banche attraverso prestiti realizzati mediante le varie forme tecniche loro concesse.

Per il sistema economico è importante, perciò, avere a disposizione mezzi di pagamento, “pronti per l’uso”, indipendentemente dalla forma che essi assumono (monete, banconote, assegni, cambiali, bancomat, carte di credito, depositi o scoperti di conto corrente, mutui, ecc.).

Ed è anche evidente, poi, che oggi l’informatica e la telematica hanno portato al sopravvento della “moneta digitalizzata” rispetto a quella tradizionale.

Questa importante funzione monetaria, riservata al sistema bancario, ha assunto negli ultimi decenni dimensioni estremamente elevate grazie, soprattutto, al meccanismo della riserva frazionaria, tale per cui una banca può prestare un multiplo (fino a 100 volte tanto della raccolta) rispettati, comunque, alcuni vincoli patrimoniali che riducono tale potenziale circa ad un rapporto di 1 a 10, rispetto ai mezzi propri.

Le autorità monetarie, infatti, condizionano e controllano la creazione di moneta modificando, oltre che il tasso d’interesse (che influisce sulle richieste di prestiti) proprio queste percentuali, poste a presidio delle riserve bancarie e patrimoniali1.

La sofisticatezza estrema degli strumenti di governance bancaria ha portato alla progettazione, negli ultimi decenni, di nuove metodologie, a disposizione degli stessi istituti, sottese, in qualche modo, ad eludere questi vincoli posti dalle autorità monetarie: si pensi alla cartolarizzazione dei crediti da prestiti, venduti o conferiti in società veicolo, appositamente create, finalizzate ad estromettere dal bilancio crediti irrecuperabili (da rinegoziare – vendere sul mercato con strumenti opachi e complessi) ed anche, evidentemente, a “ricreare spazio” da utilizzare, grazie alla leva finanziaria, per la concessione di nuovi prestiti.

La grave crisi finanziaria del 2007, partita dagli Stati Uniti, definita come crisi da mutui subprime, nasce anche da un utilizzo spregiudicato di strumenti finanziari complessi che hanno trasferito il grave rischio di insolvenza dei debitori delle banche USA, ad ignari acquirenti, fra cui anche molti istituti di credito, che hanno gonfiato i loro attivi di “titoli tossici”.

Abbiamo assistito, quindi, ad una perdita di efficienza e di efficacia (economica e sociale) da parte dell’attuale sistema di governo dell’economia monetaria e creditizia.

L’abnorme creazione di mezzi monetari in circolazione, è evidente, rompendo il nesso (B = M) che, abbiamo detto, tendenzialmente dovrebbe sempre sussistere, ha favorito la creazione di “bolle” finanziare, il cui inevitabile scoppio ha avuto quale conseguenza la creazione di gravi crisi socio economiche sistemiche, come quella che attualmente stiamo vivendo.

Quanto alla grande presenza di mezzi monetari, si stima che l’ammontare dei derivati in circolazione, ad esempio, inizialmente nati quali strumenti per la copertura dei rischi nascenti dall’oscillazione delle quotazioni dei cambi o dalla variazione del prezzo delle materie prime, e poi degenerati in mezzi atti alla mera speculazione finanziaria (scommesse allo scoperto sui prezzi futuri) sia circa 4 volte il PIL annuo mondiale, pari, quest’ultimo, a 62 trilioni di euro.

Recenti studi (Cfr. Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI Secolo) dimostrano come lo stock di capitale ammonti, mediamente e complessivamente, a circa 5/6 annualità del reddito. Se ciò è vero, senza addentrarci nelle problematiche derivanti dalle enormi disuguaglianze relative alla sua distribuzione geografica e soggettiva (il 60% del capitale è posseduto dal 10% più ricco – si rimanda alla nota 10 sulla funzione redistributiva delle imposte) nel suo complesso, può essere che effettivamente l’ammontare dei mezzi monetari superi l’ammontare di ricchezza reale esistente, in quanto il capitale, a sua volta, è rappresentato non solo da capitale fisico (quali immobili, terreni ed aziende) ma anche da “capitale finanziario” parte del quale, appunto, viene considerato base monetaria. Infatti, a livello macro economico la base monetaria è data dagli agglomerati M1: (banconote e monete) M2: (M1 + depositi bancari vincolati) ed M3: (M2 + titoli e fondi a breve scadenza) 2.

L’eccedenza di mezzi monetari, rispetto allo stock di beni reali sottostanti (o comunque e, forse, soprattutto, un suo utilizzo scarsamente regolamentato) permette la creazione, come detto, di “bolle finanziarie”.

Il termine bolla finanziaria identifica una metafora che molto bene rende l’idea di che cosa accade quando l’evoluzione dei prezzi al rialzo si sgancia dall’effettivo valore, che dovrebbe discendere dall’utilità che il bene o servizio mediamente rappresenta per i singoli operatori economici.

Lo “scoppio di una bolla finanziaria” consiste nella repentina decompressione dei prezzi3 che si riallineano ai reali valori sottostanti, esprimenti, a loro volta, l’utilità media ritraibile in un determinato contesto di luogo e tempo – mercato – da un dato bene o servizio. E’ di immediata percezione che il danno che si verifica in capo al possessore del bene svalutato non risiede in una diminuzione del valore d’uso del medesimo quanto, piuttosto, in una diminuzione della funzione di riserva di valore che mai quel bene, a ben vedere, ha avuto, nell’entità a cui l’acquirente ha creduto di spogliarsi, a sua volta, di corrispettiva riserva di valore – pagandola – per poterne acquisire la proprietà4. L’acquirente originario, quindi, grazie ai meccanismi che hanno prodotto la bolla speculativa, si è ingiustamente – cioè in modo non equo – impoverito, mentre l’originario venditore, specularmente, si è, ingiustamente, arricchito. Il concetto di giusto e non giusto che qui viene in rilievo coincide con quello di equo e non equo, inteso da un punto di vista economico, nel senso di non equilibrata acquisizione e cessione di utilità economiche. Si tratta di una conseguenza non accettabile di mal funzionamento di mercati, comunque non perfetti, sfatando un mito, se ce ne fosse ancora il bisogno, delle teorie liberiste classiche e neoclassiche.5

E’ evidente che le crisi economiche sono sempre crisi sociali. Se non vi fosse, infatti, crisi nella società, qualsiasi variazione nelle entità economiche, di qualsiasi tipo e portata, non potrebbe essere definita crisi. Questa riflessione ci aiuta a percepire come il concetto di benessere sociale non sia sempre da ricollegarsi al concetto di benessere economico e che come, soprattutto, quest’ultimo concetto venga equivocato con l’incremento di taluni indici economici, quali il PIL, ad esempio. Infatti, benessere economico significa, principalmente, soddisfacimento di bisogni, reali, umani e ciò può essere, certamente, compatibile anche con uno scenario definito di decrescita, cioè, meglio sarebbe dire6, di rallentamento dell’aumento quantitativo dei volumi e consumi economici7. In poche parole, in un mondo composto da oltre 7 miliardi di persone, una seria politica di sviluppo sostenibile deve porre al centro la qualità del consumo, anziché la quantità: meglio consumare di meno ma meglio che molto ma male.

Possiamo, infine, definire sistemiche le crisi che coinvolgono un’ampia gamma di paesi e persone. Tale sistematicità, come già ribadito, annovera fra le varie cause la progressiva liberalizzazione avvenuta nel movimento di capitali e nei commerci, con lo sviluppo di tecnologie informatiche e telematiche, che permettono lo spostamento in pochi secondi di masse ingentissime di capitali a seguito di negoziazioni istantanee di titoli finanziari8.

Non si può, quindi, sottacere il fatto che sotto il profilo della “prevenzione”, andrebbe attentamente ripensata l’intera normativa internazionale riguardante il movimento dei capitali ed il funzionamento dei mercati finanziari.

Nello sviluppo del nostro discorso aderiamo ad un approccio, volendo usare schemi di ragionamento, forse ideologici, di tipo neo keynesiano. Occorre, cioè, un intervento anticiclico, nel governo dell’economia, al fine di “guidare” le fluttuazioni economiche e tendere alla stabilità. Si rileva, incidentalmente, come invece, in questi anni, in sede europea si siano volutamente, in una fase di recessione, adottate politiche pro cicliche, cioè decisioni economiche che in un periodo di stagnazione e depressione, anziché tendere verso azioni di sviluppo, hanno ripiegato sull’adozione di misure tese all’austerità, mediante tagli a spese pubbliche di tipo sociale e livelli salariali.

Le crisi economiche finanziarie descritte appaiono, nel contesto attuale, inoltre, essere favorite ulteriormente anche da un’eccessiva liberalizzazione degli scambi commerciali, che ha spinto gli stati più “forti” ad attuare, attraverso le proprie imprese, (non necessariamente multinazionali) “politiche mercantiliste” tese alla realizzazione di avanzi commerciali a scapito della creazione di disavanzi a carico dei paesi importatori.

Queste dinamiche ed i relativi squilibri, verificatisi in modo del tutto particolare soprattutto in Europa, saranno oggetto di analisi nel paragrafo seguente.


1 A presidio, cioè, della solvibilità del sistema creditizio nel suo complesso.

2 Non possiamo non rilevare, però, che quando si tratta di avere una dimensione globale mondiale della ricchezza esistente (reale e finanziaria) non si possa che avere un atto di fede sui dati che si leggono. A parte lo stabilire l’attendibilità della fonte occorre ammettere che l’interpretazione di tali numeri si presta a molteplici considerazioni. Ad esempio, non è detto che per il semplice fatto che lo stock monetario globale, stimato pari a 4/5 volte il PIL mondiale, debba considerarsi per forza eccessivo e quindi prima causa delle crisi globali finanziarie cui assistiamo. Infatti, il PIL è un reddito, seppur aggregato, ed è altrettanto evidente che se esso viene prodotto annualmente, possa, in via del tutto naturale e logica, generare una massa di denaro pari ad un proprio multiplo. Quindi, le anomalie di cui si discute in questo lavoro, forse, derivano non tanto dallo stock di risorse finanziarie che si ritengono eccedentarie quanto, piuttosto, all’utilizzo che se ne fa. Ad esempio, seri problemi possono derivare dalla leva finanziaria che è permessa sui mercati OTC: con 1.000 euro posso movimentarne sino a 400.000, perdendo al massimo, nell’ipotesi in cui la “scommessa” vada male “solo” 1.000, ma, guadagnarne, nell’ipotesi in cui ci si azzecchi, molti di più. E’ chiaro che un investimento di 1.000 euro è ad appannaggio di un singolo privato investitore ma proviamo ad immaginare che cosa possa fare un c.d. brocker market maker (finanziaria del parabancario) che possa investire, con effetto leva 1 milione di euro. Il quadro “drastico”, poi si completa quando si ha la possibilità di scommettere al ribasso su una valuta, ad esempio, senza possederla, cioè, “allo scoperto”: si può, quindi, guadagnare sia che la borsa salga e sia che scenda, sia che si possieda e sia che non si possieda il c.d. “sottostante”. Possiamo concludere, allora, che ciò che appare veramente necessario è una efficace regolamentazione di mercati finanziari e dei correlati movimenti di capitale. I capitali si muovo o per trovare protezione, oppure per avere un rendimento soddisfacente ed anche, infine e, forse, soprattutto, per realizzare “capital gain”, cioè guadagni in conto capitale, al di sopra della media. Di recente si è pensato di introdurre la Tobin Tax (dal nome del noto economista americano che la ideò), cosa che, seppur a ranghi sparsi e non coordinati, è stata attuata in Italia ed in altri paesi europei. Con tale tributo, più che cercare di far cassa, si tenta, in qualche modo, di arginare le operazioni speculative di borsa, (venendo, così, in rilievo la funzione extrafiscale dell’imposta) con particolare attenzione a quelle definite ad alta frequenza, realizzate automaticamente da cervelloni elettronici in grado di compiere centinaia di operazioni in pochi secondi col fine di creare grandi profitti da piccoli profitti. E’ chiaro che si tratta di strumenti ad appannaggio della “grande finanza organizzata”.

3 La dinamica dello scoppio di una bolla finanziaria è la seguente: inizia con massicce vendite (spesso effettuate anche allo scoperto, cioè senza la materiale disponibilità di azioni, obbligazioni, valute, ecc., in quanto così permette la normativa) da parte degli investitori istituzionali (fondi comuni, fondi pensioni, fondi speculativi – c.d. hedge funds – grandi brokers chiamati in gergo market makers, coloro che “fanno il mercato”, ecc.), i quali, certi di avere realizzato un consistente guadagno in conto capitale (capital gain, nel senso che le quotazioni attuali sono molto più alte rispetto ai prezzi di acquisto) decidono di vendere i titoli posseduti. A fronte di questi movimenti ingenti ed iniziali, che creano una forte discesa dei prezzi, con alta volatilità (variabilità in brevissimo tempo dei medesimi) i piccoli investitori privati, il cui comportamento borsistico avviene “per imitazione”, presi dal panico, a loro volta iniziano a vendere “ a qualsiasi costo” e di solito “a qualsiasi perdita”. Sono evidenti gli effetti “drammatici” (in senso economico) che si verificano a catena da simili scenari: da un lato vi sono, generalmente, gli investitori istituzionali che hanno realizzato guadagni importanti da reinvestire, successivamente, in mercati ritenuti potenzialmente profittevoli, mentre, dall’altro, abbiamo i piccoli operatori di borsa o risparmiatori che vedono letteralmente “andare in fumo” i propri soldi. Occorre riflettere sul fatto che le “operazioni di borsa” sono sempre a somma zero: alla perdita di un operatore corrisponde il guadagno di un altro operatore. Inoltre è altrettanto evidente come “il capitale finanziario eserciti il proprio potere” sui mercati, giungendo a mettere in ginocchio anche interi sistemi paese, data la sua rapida mobilità: si pensi, al riguardo alle ingenti vendite che hanno causato, da ultimo, il crollo della borsa cinese. La logica che guida queste dinamiche è prettamente finanziaria (funzionale ai grandi speculatori) e, cioè, tesa a realizzare guadagni in un orizzonte temporale di breve termine. I mercati finanziari sono stati normati al fine di poter essere funzionali a tali obbiettivi e non a quelli del tessuto produttivo sottostante (risparmiatori, imprese, collettività e stati) che ha, evidentemente, bisogno di tempi lunghi e di stabilità al fine di poter produrre ricchezza. Tali dinamiche, poi, paiono prestarsi anche a “guerre non convenzionali di tipo finanziario tese al perseguimento di obbiettivi geo economici” in quanto il determinare il tracollo dei mercati di un paese può causare, quale effetto, fra gli altri (in una sorta di reazione a catena), la svendita da parte dello stato a “soggetti esteri” (nel disperato tentativo di salvare la propria sopravvivenza economica) di aziende pubbliche strategiche e di importanti opere infrastrutturali (porti, aeroporti, ecc.). Il quadro tende a completarsi con l’intervento delle istituzioni finanziarie internazionali, controllate e condizionate, di fatto, dai paesi forti (FMI, in particolare) le quali, in contropartita della liquidità concessa, a titolo di prestito, allo stato in difficoltà, impongono severe misure di austerità, ove le “privatizzazioni” giocano un ruolo importante, condizionando complessivamente le politiche economiche dei paesi cui “sono venute in aiuto”. Tali dinamiche si sono osservate nelle crisi del sud est asiatico ed argentina, di fine anni ’90, così come nell’attuale crisi greca.

4 E’ evidente che un bene reale, di solito, avrà sia una funzione d’uso che di riserva di valore, mentre un bene finanziario (valute, azioni, obbligazioni, ecc.) avrà, come preminente, una funzione di riserva di valore (salvo altre funzioni come, ad esempio, l’esercizio del diritto di voto in un’assemblea societaria per le azioni). I possessori di beni finanziari, quindi, subiranno immediatamente e forse irrimediabilmente il danno derivante da uno scoppio di bolla finanziaria che porta, come visto, alla repentina perdita di valore. Chi ha, invece, la proprietà di un bene reale, salvo casi particolari, può continuare a goderne (ad esempio, abitare una casa) nonostante la svalutazione subita, in attesa di tempi migliori per una sua successiva rivalutazione.

5 Può essere qua il caso di accennare a come vada inteso, invece, in ambito fiscale il concetto di giustizia negli “scambi”, in questo caso, fra Stato e Contribuenti. Da un punto di vista tributario, infatti, è sempre giusto pagare le imposte ed è sempre ingiusto non pagarle e questo indipendentemente da come vengono poi spesi i soldi da parte dello Stato. E’ evidente la forzatura di quanto appena detto, anche se si tratta di un’affermazione vera: le autorità fiscali devono sempre avere titolo per la riscossione delle tasse, indipendentemente da qualsiasi “controprestazione” che poi, attraverso i servizi pubblici, verrà erogata in concreto ai cittadini. E’, però, altrettanto chiaro che l’incassare senza dare, l’incassare e sperperare, porta, progressivamente, alla rottura del contratto sociale che sta alla base dell’obbligo di pagare i tributi.

6 Il termine “decrescita” (col suo significato semantico percepito come non positivo) può prestare il fianco alle critiche di chi, ancora oggi, è condizionato dal mito che il benessere può derivare solo da una crescita economica spinta. Il significato che gli va, perciò dato, è quello di “crescita economica responsabile”.

7 I quali, se condotti in modo dissennato, come oggi appare avvenire, inevitabilmente porteranno ad un grave ed irrimediabile depauperamento del fondamentale capitale naturale presupposto essenziale per la vita umana e non solo.

8 Per l’analisi dei cui effetti si rimanda a quanto descritto alla precedente nota n. 15.